lunedì 27 ottobre 2008



Un film che commuove e che in questi tempi di revisionismi dovrebbe far riflettere

mercoledì 22 ottobre 2008




Perché il tema solare? Quello del meriggio è un motivo ridondante nei romanzi, racconti e poesie pavesiane. E’ l’ora particolarmente feconda che pone l’uomo a contatto con una dimensione altra della coscienza. Un momento legato a una conoscenza che va oltre le capacità razionali. Sotto il sole l’uomo si abbandona e, annullando le facoltà intellettuali, approda ad una conoscenza diversa da quella ordinaria. Il corpo che si abbronza e che si annerisce, diventa strumento di conoscenza, assumendo caratteristiche telluriche. E’ il richiamo ad una sacra unità, ad una natura concepita come Magna Mater.
Ritroviamo qui la dialettica pavesiana: da una parte la città luogo apollineo fatto di corpi bianchi; dall’altra la campagna con la sua sagacia animale, il ritorno ad uno stato di natura che rende labili le differenze tra uomo ed ambiente. Più vicina a questa sacra unità è la donna che , al pari dell’animale,diventa tramite con il mondo ctonio.
Ed ecco allora che il sole diventa l'espediente che permette all’uomo di accedere a uno stato di natura, a quell’ imbestiamento che è contatto genuino con la terra.
Un ritorno al mondo degli archetipi, al dionisiaco al selvaggio. La campagna sotto la canicola costituisce la possibilità di ritornare al mito al fecondo tempo dei theoi dove accade il proibito. La collina annebbiata dal sole preconizza un mondo ancestrale. E’ il luogo del sogno e della coscienza arcaica. Mondo in cui i primi sussulti mitici avvengono davanti ai campi di stoppie o di granoturco.

La post modernità





Ordinarie storie di straordinaria follia
Sudati, appesantiti e affannati dal caldo dell’estate austriaca, i corpi di Seidl si esprimono attraverso tre linguaggi ai quali l’uomo puntualmente ricorre ogni giorno della sua vita: la parola, il sesso e la violenza. Tuttavia, Seidl nega ai suoi personaggi la possibilità di comunicare attraverso di essi, e l’inevitabile frustrazione che ne deriva sfocia inesorabilmente in manifestazioni di aggressività, che ancora si canalizza e si esprime attraverso varie combinazioni di tali linguaggi. L’intera triade quindi è privata del suo messaggio, e ogni tentativo di avvicinamento ricade nella perpetrazione di maltrattamenti e umiliazioni. La parola, o la sua totale assenza, è usata per ferire tanto quanto la violenza, che si abbatte impietosamente sui corpi stanchi, grassi, vecchi e nudi dei personaggi. Le abrasioni, i tagli, le bruciature, non sono altro che le conseguenze del fallimento di ogni tentativo di ricerca di un contatto umano. L’eccessiva ma innocente verbosità di un personaggio verrà quindi punita con violenza e stupro, che non è che il risultato della somma di due elementi della triade. Viceversa, il personaggio afasico subirà lo spettacolo del tradimento, altra variante del binomio sesso+violenza. Nel film di Seidl, chi fa sesso subisce violenza, verbale e fisica: non c’è traccia di amore in esso. I suoi corpi sono oltraggiati, umiliati, violentati, picchiati e derisi; la stessa macchina da presa li fotografa crudamente, svelandone le imperfezioni, il decadimento, la fragilità. La vecchiaia come la gioventù non sono che fasi della vita delle cellule, non contengono ne saggezza ne bellezza, ne maturità ne ingenuità. Vediamo solo organismi con una loro durata, che si rincorrono animalescamente nella speranza di trovare comprensione e sostegno, o forse semplicemente una spiegazione. L’unico piacere che accomuna gli animali dello zoo Seidliano è l’esposizione al sole, che piove indisturbato sui corpi arrossati e madidi di sudore, esibiti impudicamente e ironicamente immortalati nella loro momentanea statica fragilità.Oltre a questo, non c’è nulla, (come conclude l’anziano ingegnere quando raccoglie il cadavere avvelenato del suo povero cane che giace esanime nell’amato giardino), perché “la gente è cattiva”.
Alberto Zambenedetti

mercoledì 15 ottobre 2008

Sul sentire originale




Per Cesare Pavese conoscere é ricordare.
Si tratta di Platonismo?


Secondo Pavese esiste un concepire mitico dell’infanzia che si pone come a-priori per la coscienza, un sollevare eventi unici ed assoluti, che vivranno nella nostra mente come schemi normativi e che, in futuro, faranno di ogni esperienza sempre una seconda volta, un ritrovamento:

(…) ben poco la vita adulta può attingere al tesoro infantile di scoperte.
Si può bensì riportare alla luce quelle forme primigenie e contemplare la fresca salute, come di radici che il terriccio dei giorni ha continuato a nutrire. Poi da cosa nasce cosa, e anche i giorni futuri germoglieranno su questi ceppi (…)
C. Pavese, Mal di mestiere (Feria d’agosto)

La conoscenza mitica è infatti un conoscere il mondo che avviene al di là della nostra razionalità, attraverso modalità che sono proprie dell’esperienza religiosa.
Si conosce per grazia, per ispirazione, per estasi dove per estasi si intende una sommossa dei sensi, un abbandonarsi alle cose come in un orgasmo:

(…) E’ una crisi, una sommossa delle facoltà buone che ingannate da un urto dei sensi, presumono di guadagnare abbandonandosi alle cose. E queste afferrano, travolgono, inghiottono come un mare agitato (…). C’è in esse qualcosa di osceno: esattamente lo stesso che abbandonarsi al sesso e volerne narrare le sensazioni segrete.
C. Pavese, Mal di mestiere (Feria d’agosto)

Il mito risiede nell’essere sottratto all’accadere. Il che è avvenuto idealmente una volta per tutte e il carattere dell’individuo si intravede nell’essere attratto e conformato da qualcosa che sta al di là della propria esperienza storica come ricorda Guiducci (1967).
Il mito non è semplicemente un racconto narrato, bensì una realtà vissuta, una viva realtà che si crede avvenuta all’inizio dei tempi e che, da allora, continua ad esercitare la sua influenza sul mondo e sul destino degli uomini.

Chiari del bosco





Di Claros del bosque, Marìa Zambrano ha detto" Tra le mie opere, é questa io credo, che meglio corrisponde all'idea che pensare é, prima di tutto, alla radice, decifrare ciò che si sente, il sentire originale"

domenica 12 ottobre 2008


Il venditore di poesia, vita e pensiero di Gaetano Ravizza

di Pierpaolo Pracca


Quando se ne andò, nel dicembre del 1986, qualcuno disse che era scomparso il poeta matto.Una storia da esule e di marginalità, che richiama quella di un grande della letteratura italiana: Dino Campana.Le sue liriche risentono dell'influenza dei simbolisti, dei tardo decadenti, dei futuristi e dei teosofi.Pierpaolo Pracca ha narrato la sua storia facendo parlare i versi, le lettere, gli incontri, il mondo intellettuale attorno al quale si mosse la sua vita. Ne emerge un affresco complesso e assai ricco, una vicenda appassionante, umana e letteraria.
220 pagineISBN: ISBN 978-88-89509-52-4

sabato 11 ottobre 2008

Omaggio a J.C. Izzo


Il cuore di una città

Marsiglia non è meta per gite domenicali. E’ invece l’ideale per perdersi e perdere tempo. La sua luce, l’odore, i rumori sono il pretesto per concedersi una via d’uscita dalla quotidianità, per vivere, come direbbe il grande Paolo Conte, una storia di contrabbando.
Percorrere le strade della città vecchia cullati dallo spirito del luogo, confondersi in quel crogiuolo di razze dà un senso di misterioso piacere. Marsiglia è luogo di confine tra Europa e paesi del sud, un’interzona fra il qui ed un altrove che ha il sapore dell’esotico, dell’estrema lontananza.
Passeggiare per il Panier, significa sentire palpitare il vecchio cuore della città. Un cuore che parla le lingue del mondo, dell’esilio.
Quelle case, quelle vie strette, gli odori di cibo che si confondono con quelli della sporcizia dei vicoli, possiedono la memoria del luogo di mare.
A ben pensarci non è molto diversa da Tangeri, Istambul, Napoli, Genova e Barcellona. Stesse stradine strette, tortuose, pullulanti di gente, di odori, colori.
Seguendo la costa si scoprono quartieri, paesi dai nomi romanzeschi: Catalans, Vallon-des Auffes, Malmousques, il ponte della Fausse-Monnaie, Prophète. E poi la gran luce che, nelle ore più roventi, costringe ad abbassare lo sguardo, la stessa luce che affascinò Cézanne e che attirò Rimbaud, poco prima di morire.
Marsiglia è anche un grembo accogliente, una grande madre tra le cui braccia si guarda il mondo senza doversene andar via.
« Dal foro di Saint Marie non giro le spalle alla città, no. Mi appoggio, invece. E guardo il mare. Il largo»
J.C. Izzo, Aglio,menta e basilico, 2006.
Marsiglia, patria dell’esilio, città dei senza patria, ma che sa essere base sicura per coloro che la abitano e la amano. Quando non si ha fretta non c’è nulla di più piacevole che camminare senza una meta precisa in cerca di sensazioni e di scorci da osservare.
« Credo in questo, in ciò che ho imparato nelle strade di Marsiglia, e che porto sulla mia pelle: l’accoglienza, la tolleranza, il rispetto dell’altro. (…) non c’è nessun rischio nel parlare questa lingua. Solo felicità. Mi piace credere che Marsiglia, la mia città non sia una meta in sé. Ma soltanto una porta aperta. Sul mondo, sugli altri. Una porta che rimanga aperta, sempre. »

La gente che s’incontra nei locali del centro storico dà l’impressione di capirsi, di sentirsi legata da identici destini.
« Chi veniva a bersi un pastis, sicuramente non votava Fronte Nazionale, e non l’aveva mai fatto. L’amicizia che aleggiava qui tra i vapori dell’anice, si comunicava con uno sguardo. Quello dell’esilio dei nostri padri. Ed era rassicurante. Non avevamo niente da perdere, avendo già perso tutto »
Il piacere della vita, a Marsiglia, può essere entrare in un bar, ordinare un mauresque e, tra nuvole di fumo, osservare la varia umanità che si avvicenda ai tavoli e al bancone.
«E’ per questo che amo questa città, la mia città. E’ bella per questa familiarità, che è come pane da spartire fra tutti. E’ bella solo per la sua umanità.»
A quel punto, tra quei volti segnati da mille storie, non sarà difficile immaginare di imbattersi in Fabio Montale, il personaggio, l’antieroe creato dalla fantasia di Jean Claude Izzo.
Il commissario Montale, l’ex poliziotto, che ebbe come suo primo maestro di vita, Antonin, libraio anarchico. Fu grazie a lui che scoprì l’importanza della letteratura e della musica.
« I libri, fu Antonin un vecchio libraio anarchico di cours Julien, a farceli apprezzare. Facevamo sega a scuola per andarlo a trovare. Ci raccontava storie di avventurieri e pirati. Il mar dei Caraibi. Il mar Rosso. I mari del Sud »


Fabio Montale è un poliziotto particolare che per sensibilità ed idee politiche s’ avvicina più alla figura di un assistente sociale o a quella di un educatore di strada.
« In un'altra epoca mi sarei potuto imbarcare su un transatlantico: L’Argentina. Buenos Aires (…)
avevo quel piacere di vivere degli uomini, e ecco che la terra esala la sua anima straniera (…)
Da piangere
Poi ero diventato poliziotto, senza sapere bene perché, né come. »

E’ investigatore in proprio, sullo sfondo di una Marsiglia dalle tinte fosche, tra trafficanti d’armi, integralisti islamici e mafiosi d’alto bordo.
Nella trilogia di romanzi polizieschi - Casino Totale, Chourmo e Soléa - Montale annega le sue tristezze nel lagavulin whisky scozzese, nel pastis provenzale, nella zuppa di pesce, e nella musica soul. Inoltre possiede una barca custodita in un cabanon alle Goudes - vecchio villaggio di pescatori dei quartieri a sud di Marsiglia – con la quale va per mare all’alba per smaltire la tristezza. E infine si consola con la buona cucina del suo Midi, unico conforto, insieme all’amicizia, in un’esistenza che spesso non lascia speranza e soccombe alle schifezze del mondo. Questi sono i momenti in cui la vita s’impone nonostante tutto. Poi le storie di una notte, i duelli con una criminalità che come un male oscuro si porta via con sé affetti ed amori. Storie fatte di solitudini che s’incontrano, di sapori che provengono dai remoti recessi della memoria e come eco rassicurante mitigano un presente di morte e dolore. I momenti conviviali diventano così un’ occasione di compensazione, il ritorno al confortevole seno materno, attimi di redenzione nei quali Montale riesce ad estraniarsi dai suoi fantasmi.
Mangiare, bere, mangiare, per sconfiggere l’odore della morte. Come molti altri personaggi del noir, Montale, è un appassionato di cucina. Il cibo per lui è spesso un sedativo. Ma, va detto, mai utilizzato in modo compulsivo. Montale sa fermarsi e anche nei momenti più disperati sa godersi la pausa del desco in religiosa contemplazione. Il cibo che assimila non diventa solo carne, ma contribuisce ad alimentare in lui, la memoria, quel prezioso bagaglio lirico che è alla base della sua ricca umanità. Cibo, dunque, come trade d’union tra il presente ed il passato che risveglia ricordi che tiene salde amicizie ed amori come quella per il vecchio Fonfon e per la bella Lole.