giovedì 12 marzo 2009


Siamo uomini o generali?

Forse non è un caso se mentre scrivo queste righe mi viene in mente la Scuola di Atene di Raffaello. In questo affresco il gesto di Aristotele e quello di Platone stanno esattamente a significare la duplice propensione del pensiero occidentale nel guardare alle cose e cioè l’effimero del mondo come indica lo stagirita e l’ ideale imperituro com’è invece per Platone. Due movimenti che indicano sostanzialmente due diverse concezioni della vita. Come direbbe Coleridge, gli uomini nascono aristotelici o platonici. Per i primi il reale non sono i concetti astratti mentre per i secondi il mondo altro non è che un tenue riverbero di un altrove dove tutto è perfetto. Ma questa differente propensione nel guardare alla terra o al cielo apre un’altra importante questione che interessa il discorso sulla natura del pensiero utopico e cioè il rapporto tra l’individuale e il generico, tra l’individuo e l’ideale di individuo. L’aristotelico rifiuta il generico/ideale in quanto ritiene l’individuale irriducibile e senza uguale. Uno scrupolo etico gli impedisce di operare con astrazioni. Il platonico al contrario guarderà con rammarico la natura finita dell’uomo ed aspirerà a cogliere i segni di una legge universale dal momento che per lui l’universo è un cosmo ordinato. Si tratta di due grandi filoni di pensiero che spesso, nel corso dei secoli, si sono dati battaglia, contaminandosi a vicenda. Aristotelismo e Platonismo voglion dire da una parte Aristotele, Locke, Hume, William James dall’altra Platone, Spinoza, Kant.
Queste due visioni del mondo hanno da un lato celebrato il trionfo del reale quale criterio di discriminazione tra luogo effettivamente raggiungibile e luogo illusorio ritenendo la realtà l’unico vero luogo, dall’altro l’idea di un necessario superamento della condizione umana in una prospettiva assoluta, nella speranza a volte illusoria di una liberazione dai mali dell’esistenza sia a livello individuale, sia a livello politico e sociale.
Ma forse il problema sta nel non vedere questi due pensieri separati ed inconciliabili ma, al contrario, come due esperienze che si sono spesso contaminate e completate. L’utopia senza un radicamento nel reale diverrebbe un mero esercizio intellettuale mentre una vita eminentemente legata al dato di realtà senza slanci utopici rischierebbe di diventare un insieme di comportamenti senz’anima. Niccolò Machiavelli, da questo punto di vista, è un compendio di senso del reale e slanci utopici che si esprime attraverso la massima secondo la quale i mezzi giustificano i fini. Ne Il Principe, dedicato a Lorenzo Piero de' Medici, l’utopia non interessa un luogo, ma un individuo. Il principe concentra in sé virtù e gusto e si adopera al governo dello stato con lo stesso spirito di un artista che si dedica a un’ opera d’arte. Come afferma Galimberti l’utopia diventa un’opportunità per correggere o integrare una situazione politica o religiosa esistente. Quindi non solo un esercizio di astrazione intellettuale o un sogno generico, ma una forza di trasformazione della realtà in atto diventando un’arte del possibile cambiamento. In questo senso Crespi (1996) sostiene che l’utopia può diventare un’ apertura verso una non mistificata possibilità di realtà differenti da quelle fino ad ora sperimentate.

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